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Il triangolo d'oro
L’area del Mekong è un ottimo esempio dell’eccezionale adattabilità e capacità mimetica delle "società incivili" come le ha definite il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan.
È anche una delle miscele più esplosive e potenzialmente pericolose che si possono incontrare nel lato oscuro della globalizzazione.
Il suo epicentro è il Triangolo d’Oro (Myanmar-Tailandia-Laos): una denominazione geografica imprecisa ma d’effetto, divenuta famosa negli anni ’70. L’oro era in realtà l’oppio e la ricchezza astronomica che genera la produzione di eroina. Il triangolo era in realtà un’esagono perché anche Cina, Vietnam e Cambogia ne fanno parte. Ma era tutt’altro che oro quel che luccicava e che rese famoso quel punto del fiume Mekong dove i confini dei tre paesi si incrociano.
I poveri coltivatori ricavano dall’oppio, allora come oggi, meno di 200.000 lire per famiglia all’anno.
Diventavano invece ricchi sfondati i trafficanti e i politici corrotti che li proteggevano, i magistrati che chiudevano un occhio e i militari e la polizia che li chiudevano tutti e due. Per poi tenere gli occhi bene aperti a caccia di lautissime mance quando c’era da dare una mano come controllori delle frontiere e gestori dei relativi posti di blocco. Trent’anni dopo, le regole spietate dell’economia di mercato hanno normalizzato il Triangolo d’oro in un’esagono esemplare di economia depredatoria, diversificata, integrata, con un’efficentissima divisione del lavoro.
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